9 febbraio 2011
corriere.it
La domanda è più che legittima: perché tanti anni di silenzio? Giulio Capone continua a chiederselo. «È passato più di un secolo dalla pubblicazione di quel lavoro semplice, chiaro, di gran rigore scientifico e tutto è rimasto nascosto». Giulio Capone è medico di base a Roma, specializzato in dermatologia: il lavoro a cui si riferisce lo ha scritto Vincenzo Tiberio, suo nonno.
Un nome ancora sconosciuto al grande pubblico, ma non alla comunità scientifica italiana e internazionale. Sì, perché nel 1895 quel giovane medico igienista, un po’ burbero e geniale, pubblicò lo studio “Sugli estratti di alcune muffe” negli Annali di Igiene Sperimentale, una rivista prestigiosa dell’epoca. Il fascicoletto conteneva i risultati delle ricerche che lo avevano portato a scoprire il potere battericida delle muffe, ben 34 anni prima che Alexander Fleming pubblicasse le sue osservazioni sul British Journal of Experimental Pathology. Insomma, l’inventore della penicillina è, per molti, l’italiano Vincenzo Tiberio. «Primo nella scienza, postumo nella fama», recita la lapide commemorativa che il comune di Sepino, in provincia di Campobasso, ha voluto collocare sulla facciata della sua casa natale. Ora il Consiglio nazionale delle ricerche ha deciso di rendere onore al merito dello scienziato, promuovendone la figura con il documentario «Vincenzo Tiberio. Il vero papà della penicillina» (che sarà disponibile sul sito dell’Almanacco della scienza Cnr).
Le muffe del pozzo
Chi era dunque Vincenzo Tiberio e come arrivò a precorrere Fleming? La storia è affascinante e merita di essere raccontata attraverso la testimonianza del nipote e di Salvatore De Rosa, scienziato dell’Istituto di chimica biomolecolare (Icb) del Cnr di Pozzuoli, appassionato studioso di Tiberio. «Mio nonno nacque nel 1869 a Sepino, città costruita dai Romani dopo la vittoria sui Sanniti. Suo padre, Domenico Antonio, era un notaio e quindi la famiglia stava bene. La casa era un piccolo centro di cultura, frequentata da studiosi e professionisti. E Vincenzo mostrava una spiccata propensione per gli studi scientifici».
Dopo il liceo, il padre lo iscrisse alla facoltà di Medicina di Napoli e lo mandò a vivere dagli zii Graniero, ad Arzano. La casa di Arzano e il suo pozzo, che forniva l’acqua per le necessità domestiche, saranno fondamentali per la scoperta. Tiberio notò che gli inquilini della casa soffrivano di infezioni intestinali ogni volta che il pozzo veniva ripulito dalle muffe. I disturbi, invece, cessavano quando le muffe ricomparivano sui bordi del pozzo.
«Noi nipoti non abbiamo conosciuto il nonno, perché è morto nel 1915 a causa di una febbre mal curata – dice Giulio Capone –. Tutto quello che sappiamo ce lo ha raccontato nonna Amalia, che è stata una delle due passioni del nonno, assieme all’Istituto di igiene di Napoli dove fu assistente, prima volontario e poi strutturato».
Nonna Amalia raccontava di Vincenzo impegnato a raschiare le muffe dal pozzo con una spatolina, per portarle in laboratorio. «Nei documenti scritti da Vincenzo Tiberio – riferisce Salvatore De Rosa – sono descritte in dettaglio le condizioni di crescita delle varie muffe isolate, il metodo di estrazione acquoso delle muffe e il loro potere battericida sia in vitro sia in vivo. Viene evidenziato il potere chemiotattico degli estratti delle muffe nelle infezioni da “Bacillo del tifo” e “Vibrione del colera”, con l’utilizzo come cavie dei conigli e la tecnica delle infusioni sottocutanea e intraperitoneale. Il lavoro risulta molto meticoloso, con dettagli sperimentali e una serie di tabelle in cui riporta l'azione degli estratti sulle cavie utilizzate».
Riconoscimento
Eppure Tiberio fu costretto a portarlo avanti tra difficoltà e diffidenza. Dalle prime osservazioni alla pubblicazione della relazione conclusiva passarono circa cinque anni. L’ambiente scientifico ufficiale non dette peso alla scoperta e le conclusioni sul potere battericida delle muffe furono registrate come una coincidenza.
«Mio nonno rimase profondamente deluso da come il lavoro venne accolto. Nel 1895, dopo la pubblicazione dello studio, lasciò l’Istituto di igiene per contrasti con il nuovo direttore di cattedra e si arruolò in Marina» racconta ancora Capone. Il fascicoletto della sua ricerca rimase relegato in uno scaffale polveroso dell’Istituto di igiene fino al 1955, quando un «topo di biblioteca» lo riscoprì e fu ristampato a cura dell'Istituto di Igiene stesso. I nipoti ne hanno difeso il nome e la memoria, scrivendo anche un libro.
E Fleming? Il grande microbiologo scozzese riconobbe mai i meriti di Tiberio? «Chain, uno dei tre premi Nobel assieme a Fleming – dice Capone –, affermò in un’intervista che il suo illustre collega conosceva mio nonno e i suoi lavori. Lui però non lo disse mai apertamente». Tiberio comprese che non avrebbe avuto il giusto riconoscimento in patria, ma la passione per la scienza non lo abbandonò mai. Racconta il nipote che, dietro una foto di nonna Amalia, Vincenzo scrisse una frase emblematica: «Lunga e difficile è la via della ricerca, ma alla base di tutto c’è l’amore».
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