Di seguito la Prefazione della filosofa e teologa Ylenia Fiorenza.
Mitri dà voce a quello che spesso soggiace a segrete stanze o, peggio ancora, è vilmente bisbigliato sottovoce, proprio da quanti potrebbero, invece, gridare il Vangelo sui tetti, nel nome di Colui che disse “Guai!” a farisei, a mestieranti del tempio. In particolare, Gesù, senza esitazioni, si volge verso gli ipocriti, ossia a coloro che vestono gli abiti della purità, che continuano ad imporre leggi mortali, camuffate da veli fintamente mistici, mentre sudiciano le proprie anime di perfezionismo ossessivo e giacciono tra le acque avvelenate della superbia antica. Tacciono alla fine, sì! E lo fanno per una forma di onore alla imperante loggia dei cosiddetti “prudenti”: i tanti che mai si espongono personalmente, ma che sanno ingerirsi in ogni avvenimento come sibille d’oltre isola.
Tacciono proprio perché parlare sarebbe come dover morire a ciò che, con convinzione, invece è già stato intronizzato solennemente dalle proprie mani: il relativismo. L’ospite furbastro, che non doveva affatto trovare dimora nel cuore dei credenti, ora è qui riverito, solleticato, servito, spacciato come un bizzarro valore aggiunto al racconto della salvezza. È ovvio che il relativismo ha superato la sua propaganda ateista d’un tempo, ma l’ha superata proprio perché l’ha saputa legittimare dentro le sembianze odierne della sovranità carismatica della dea “autonomia”.
La libertà non è più un’aspirazione, ma una pretesa svenduta ad ogni costo, sì, a basso costo. E questo causa solo una cosa: l’insurrezione della decadenza di fronte all’irriducibilità assoluta della Parola del Cristo, Maestro e Signore che avvisa: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete” (Mt 7,15-16). La rapacità cui fa riferimento Gesù è, in fondo, una strategia di controllo, che spesso, ansimante, educa a travisare ogni cosa, e spingere a varcare con i piedi sporchi della corruzione più subdola la soglia del Santo dei Santi, ad elemosinare un posto in prima fila sull’altare dell’apparire.
Mitri, in queste pagine, sembra correre dietro a loro, come se si fosse accorto che le loro lampade stanno per spegnersi. Non per mancanza di olio. Ma piuttosto perché hanno mescolato l’olio all’acqua, la fede alla mondanizzazione, i propri idoli alla Verità. C’è una miseria che più di tutte porta, infatti, alla barbarie, ad una vera e propria incivilizzazione: il fare della fede un sistema, della sequela Christi un mestiere, dell’adorare un ascetismo impazzito e disumanizzante, dei legami un liturgismo scaccia diavoli, della testimonianza una schiera di comodi impoltronati sulle navi mercantili del potere.
La cavità dilemmatica odierna è questa: è l’uomo l’artefice della propria libertà o è la libertà l’artefice dell’uomo? In questa voragine si cola a picco tutta la coscienza. Molti sono a riguardo gli spunti e le provocazioni offerte dall’autore in questo saggio, con l’intento di accostarsi, con luce di sapienza, senza zavorre di ritualismi fatalisti e senza rigurgiti di reminiscenza medievale, al torrente denominato da Mitri: “antropologie in conflitto”. Nodo fittissimo, in cui è rimasto aggrovigliato persino il cuore dell’uomo contemporaneo, che finora si è proclamato così tanto indipendente e autosufficiente da rifiutare quel Dio del “nonostante tutto”, che non può fare a meno di salvarlo.
Come si vince il male? Vivendo il bene, hoc tempore, da veri rigenerati in Cristo. Già da risorti! I segni distintivi di questa regola d’oro vivificatrice vanno ricercati placidamente all’ombra di quel lume di amore gratuito, che stilla dall’alto, non più un’assoluzione per il tempo, bensì un tempo per l’assoluzione!
AQUISTALO QUI
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