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Gabriele Pepe, nacque a Civitacampomarano (CB) il 7 dicembre 1779 da Carlo Marcello e da Angela Maria Cuoco, zia del più noto Vincenzo Cuoco.
Ricevette i primi insegnamenti dal padre e poi dallo zio il sacerdote don Francesco Maria Pepe, discepolo del Genovesi e da Attanasio Tozzi, altro maestro della scuola del Genovesi, i quali, insieme aprirono una vera e propria scuola in Civitacampomarano, la quale ebbe allievi sia Gabriele con i fratelli Raffaele e Carlo, sia il Cuoco, sia Nazario Colaneri, che, in seguito, ebbe a sposare la sorella di Gabriele, Angelamaria.
Il Colaneri, cognato del Pepe, fu fondatore della prima loggia massonica molisana e ne divenne pure il capo.
Nel 1795 il padre Carlo Marcello, frequentatore del salotto giacobino della contessa Olimpia Frangipane di Castelbottaccio, fu arrestato insieme ad altri patrioti; condotto nelle carceri di Lucera, dopo due anni fu condannato ad un duro esilio in Francia, a Marsiglia, dove ebbe a trascorrere una vita di stenti e di dolore, soprattutto per la lontananza dalla famiglia, la moglie Angela Maria e i figli Raffaele, Gabriele, Carlo e Angelamaria.
Questo avvenimento segnò fortemente il carattere di Gabriele, ragazzo intelligente, vivace e creativo, cresciuto in ambiente di ottima cultura in cui si respirava aria di patriottismo.
Nel 1797 il giovane Pepe si arruolò come alfiere di cavalleria nel reggimento Abruzzo II, il quale venne inviato a contrastare la Repubblica Romana, voluta dai francesi, nei cui fatti d’arme di Civitacastellana e Velletri il Pepe rimase ferito.
Nel 1799, mentre il re Ferdinando e la regina Carolina fuggivano da Napoli, egli giunto colà si arruolò nella Legione Sannita, comandata dal Belpulsi, combattendo contro il cardinale Ruffo a Benevento e a Portici. Qui venne nuovamente ferito ed arrestato e imprigionato a Napoli nel carcere della Vicaria, mentre il cardinale Ruffo si recava, alla testa delle truppe sanfediste, a Civitacampomarano per saccheggiare e distruggere la sua casa.
Il Pepe, processato, fu condannato a morte, ma, data la giovane età, la pena gli fu commutata nell’esilio.
Tradotto a Marsiglia, dove si mise alla ricerca del padre Carlo Marcello, ma non potette avere la fortuna di ritrovarlo in vita, poiché il genitore si era spento un paio di mesi prima e il Nostro non poté che piangere sulla sua tomba e porvi un fiore.
Intanto Napoleone Bonaparte si stava preparando a scendere in Italia e il Pepe andò ad arruolarsi subito nella Legione Italiana col grado di tenente; varcato il San Bernardo venne distaccato a Brescia.
Nel 1801 e 1802 egli fu a Milano, insieme al cugino Vincenzo Cuoco, dove si dedicano agli studi letterari.
Dopo la pace di Firenze, nel 1802, il Pepe lasciò il servizio militare e fece ritorno a Napoli, dove intraprese gli studi di medicina.
Nel 1805 pubblicò un opuscolo in cui egli descrive la natura e i danni del terremoto del 26 luglio, che mietette molte vittime anche nel nostro Molise.
Nel 1806 assunse il regno di Napoli Giuseppe Napoleone e Gabriele Pepe fece domanda di rientrare nei ranghi dell’esercito e, con Regio Decreto del 22 giugno, venne richiamato con il grado di 1° tenente nel 1° Reggimento di Linea e comandato a combattere il brigantaggio.
Nel 1807 venne promosso capitano e messo al comando di una Legione di soldati, tutti italiani; nell’anno successivo alla testa della Legione Italiana partecipò alla spedizione di Spagna.
In questa terra vi rimase per quattro anni, prestando onorevole servizio, tanto da meritare la Croce di Cavaliere dell’Ordine delle Due Sicilie sul campo di Girona (9 giugno 1809).
Il 7 luglio dello stesso anno, all’assalto del Forte Montjonich venne ferito al piede sinistro per lo scoppio di una granata. Durante la permanenza spagnola scrisse il famoso Diario militare Galamatias.
Nell’aprile del 1811 rientrò a Napoli e ricevette con Regio Decreto 2 aprile 1813 la promozione a Capo Battaglione ed assegnato come Aiutante di campo del generale principe Francesco Pignatelli – Strongoli, comandante della 2° Divisione, la quale partecipò alla campagna delle Marche e della Romagna durata fino al 1815.
Nell’aprile del 1815, nella battaglia di Macerata venne nuovamente e seriamente ferito, scampando alla morte solo grazie all’abilità di un bravo chirurgo militare.
Convalescente tornò a Civitacampomarano e trovò lì il decreto Regio 21 dicembre 1815 con il quale fu nominato colonnello.
Con il grado di colonnello il Pepe fu destinato nel 1818 al Comando della Provincia di Capitanata, nel 1819 in Calabria e l’anno successivo a Siracusa al comando del 6° Reggimento Cavalleggeri.
Nel 1820 vennero indetti i comizi per l’elezione dei Deputati e il Pepe, essendo stato candidato, venne eletto nel collegio del Molise.
Revocata la Costituzione dal Re, Gabriele Pepe fu condannato nuovamente all’esilio perpetuo in Austria, nella città di Brünn, dove vi restò fino a marzo del 1823, quando ebbe la facoltà di potersi trasferire a Firenze.
Nella città toscana ebbe a stringere relazioni di amicizia con Monti, con Giordani, col Tommaseo, con Ridolfi, con Niccolini, con Capponi, con Leopardi, con Manzoni, con Ranieri, con Troya, col Poerio e col Foscolo e si mantenne impartendo lezioni di scienze e di letteratura ai figli della nobiltà fiorentina; entrò a far parte dell’Antologia del Vieusseux, alla quale collaborò, ricevendone un piccolo compenso che lo aiutò a sbarcare il lunario.
Nello stesso tempo, approfondì i suoi studi letterari, partecipando attivamente, con propri contributi storici e critici, alle varie problematiche che impegnavano i più grandi uomini di cultura dell’epoca; prova ne sia che pubblicò, nel 1826, il saggio sul canto XXXIII° dell’Inferno di Dante “Poscia, più che il dolor, poté il digiuno”, che scagionando il conte Ugolino dall’accusa di antropofagia per motivi umani, storici, fisiologici e artistici, onde “Dante volle intendere che non già il dolore, ma sebbene il digiuno perir fece Ugolino; perché così facendo vibrava più forti colpi e con massimo effetto, allora non poteva meglio dire di quel che ei disse; e dir così dovea”, scriveva testualmente il Pepe (Da Enciclopedia Dantesca 1970, Treccani). E non solo questo fu il contributo alla critica dantesca, ma altri ne pubblicò sulla Antologia.
Qui, a Firenze, il Pepe incontrò il poeta Alfonso Lamartine, che svolgeva l’attività di segretario della rappresentanza diplomatica francese nella città toscana e lo sfidò a duello per l’epiteto dato all’Italia, in un suo scritto, di “città dei morti”.
L’invito fu accolto e i due si ritrovarono il 19 febbraio 1819, alle ore 11, “in un deserto arboreto presso l’Arno”; il Pepe andò senza padrino e senza arma, giacché non ne possedeva. Il Lamartine ne aveva portate due, una più lunga e l’altra più corta, che consegnò al Pepe. Ma, il Nostro, nonostante fosse svantaggiato per la brevità del ferro, batté il francese, ferendolo; si prestò pure a fasciargli la ferita.
Il fatto ebbe grande risonanza negli ambienti patriottici, tanto che restò “scritto a chiare lettere d’oro nei fasti del nostro Risorgimento” come scriveva il Troya.
Il Lamartine apprezzò molto il gesto del Pepe e si prodigò perché il Nostro non venisse punito o comunque assoggettato a ritorsioni, facendo intervenire direttamente il Ministro di Francia e scrivendo di suo pugno al Granduca “acché l’esule napoletano non avesse a subire molestie”.
Durante l’esilio il Nostro aveva scritto più volte al governo di Napoli per avere la pensione che gli competeva in base alla legge 28 luglio 1822, ma il governo di Napoli aveva fatto sempre orecchi di mercante.
Nel 1836, finalmente ebbe la facoltà di rientrare nel Regno; sbarcò, via mare, al molo dell’Immacolata di Napoli, il 25 agosto. Dopo qualche giorno si recò presso l’ufficio del Ministro di Polizia Delcarretto per alcune pratiche e il discorso cadde sulla pensione che pure gli spettava.
Il Ministro alle sue lagnanze rispose: “Per finirla più presto, caro il mio colonnello, facciamo una cosa: invece di sprecare tempo in richiami, che forse torneran vani, le piaccia riscuotere dalla Cassa del mio Ministero la provvisione, cui il mio collega preposto alle cose di guerra le ha negato finora”.
A queste parole Gabriele Pepe non rispose, salutò il Ministro e andò via.
Se ne tornò a Civitacampomarano dove si dedicò ai suoi studi e a quelli della musica, esercitandosi nel suono del violino.
Fino al 1848 il Pepe trascorse la sua esistenza tra il paese natio e Napoli, dove si recava presso parenti, specie nei mesi invernali. Ed è scontato dire che la polizia borbonica lo continuava a tenere sotto controllo.
Nel 1848, ai primi moti di quell’anno, con decreto 3 marzo venne richiamato a Napoli e nominato Capo di Stato Maggiore della Guardia Nazionale, al cui vertice era stato nominato il generale principe Pignatelli, di cui il Pepe era stato già aiutante di campo.
Il re, volendo ostentare sentimenti democratici, lo invitò alla Reggia e nel corso del colloquio gli offrì di adoperarsi alla formazione del Ministero, ma il Nostro, schivo di onori, designò al suo posto l’amico Troya, il quale accettando, nominò il Pepe Generale Comandante della Guardia Nazionale.
Eletto Deputato al Parlamento per il collegio del Molise, in seguito all’ennesimo scioglimento di esso, amareggiato, tornò al suo paese, Civitacampomarano dove si spense il 26 giugno 1849.
Fu seppellito con tutti gli onori dal suo popolo nella chiesa di San Giorgio; in seguito le sue spoglie furono disperse ad opera di un sacerdote sanfedista, tale Bellaroba, di cui non si sa bene che fine abbia fatto dopo che fu sospeso a divinis.
La sorte si era accanita talmente su questo eroico patriota, tanto che il giorno della sua morte, mentre si svolgevano i funerali, giunse a Civitacampomarano un messo da Napoli, per notificargli l’ennesimo mandato di cattura.
Gabriele Pepe fu innanzitutto un grande patriota, un militare, un politico onesto, un amante delle lettere ed uno storico, ma fu anche poeta che ci ha lasciato un’ode all’Italia molto bella.
La città di Campobasso, alla sua morte, gli conferì la Cittadinanza onoraria e in seguito, gli ha eretto un monumento stupendo, opera dello scultore Francesco Jerace, inaugurato il 27 luglio 1913 alla presenza di S.A.R. Emanuele Filiberto di Savoia, e posto nella Piazza a Lui stesso dedicata, al centro principale della Città, proprio di fronte al Palazzo del Governo.
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